L'unità di generazione rappresenta una 
forma di coesione più concreta anche 
sotto il profilo politico

 

Vitandrea MarzanoVitandrea Marzano

Sto seguendo con interesse il dibattito che è riuscito ad animare l’editoriale «I giovani leoni della politica» e mi farebbe piacere, a tal proposito, proporre alcune riflessioni di metodo e un punto di vista. Nell’editoriale, così come nel linguaggio comune, si è soliti utilizzare la nozione di «generazione» indicando l’insieme di chi ha, all’incirca, la medesima età (es. i quarantenni). Confondendo, così, la categoria di generazione, con un dato squisitamente anagrafico e di appartenenza ad una stagione della vita che è quella della «giovinezza». Se ne parla invece con un significato diverso quando ci si riferisce ad esempio alla beat generation, alla generazione del ’68 o del ’77 o ancora alla generazione dei giovani precari. In questo caso non è importante il dato anagrafico ma è sufficiente che gli individui vivano i loro anni più significativi in un periodo di tempo, considerato rilevante sotto il profilo storico, culturale, politico. Ed è lo spirito del tempo, in questo caso, con le esperienze potenziali e importanti che lo caratterizzano, a rappresentare il carattere costitutivo di una appartenenza, quella generazionale. Ma quando una generazione puramente anagrafica diventa un fenomeno sociale e culturale? E in che modo, oggi, alla luce delle esigenze pressanti di rinnovamento in Italia e delle retoriche abusate in politica può essere declinata questa distinzione tra dato demografico e culturale? Proverò di seguito, pur brevemente, ad argomentare a tal proposito. L’esser nati e vissuti in un certo momento storico ed in una certa epoca può produrre certamente una «affinità di collocazione», ma questo fondamento biologico non è sufficiente, di per sé, a coprire concettualmente la connotazione di un «fenomeno generazionale».

 

L’analisi del fenomeno generazionale dovrebbe andare al di là del semplice aspetto della collocazione laddove la collocazione generazionale non implica né produce inevitabilmente un «legame generazionale». È di certo una possibilità. Ma di per sé non sufficiente a qualificare un legame che necessita piuttosto di una specificità ulteriore: un’unità di generazione che deriva da quella che potremmo definire una “connessione generazionale”. L’unità di generazione rappresenta, infatti, una forma di coesione più concreta, anche sotto il profilo politico e presuppone una consapevolezza sensibile e di scelta differente all’interno dello stesso apparente e fragile legame. Il nucleo che dà compattezza e forza ad un’unità di generazione è rintracciabile nelle intenzioni di base, nei principi formativi ma soprattutto in quello che i tedeschi definiscono weltanschauung, ossia una comune visione del mondo che può ispirare comportamenti congruenti e politicamente orientati. La dinamica generazionale va quindi (ri)letta in stretta connessione con la congiuntura storica, ma soprattutto attraverso una lente culturale e ideologica, rintracciando le ragioni e le sensibilità che hanno determinato, in un’epoca circoscritta, un comune senso di appartenenza, una capacità autoriflessiva, una elaborazione collettiva e una proposta politica. Il rapporto tra le generazioni e la politica viene mediato dagli avvenimenti storici e dalle spiegazioni del mondo che le stesse elaborano nel corso dell’esperienza sociale del proprio tempo. E la specificità di ogni generazione si esprime nell’unità e unicità del proprio tempo, che è anche un tempo interiore e che sa interpretare questa sensibilità in un sentire collettivo.

La tensione verso un telos politico, poi, una generazione la realizza in quanto sa e vuole tradurre socialmente e in forma concreta la propria visione del mondo, caratterizzando così la propria epoca ed esprimendo il proprio protagonismo storico, culturale e sociale. E questo può realizzarsi in perfetta continuità rispetto a un passato che è pronto a favorire un fisiologico e organizzato rinnovamento di pensiero e di azione (cosa rara in Italia), in aperta conflittualità con ciò che l’ha preceduto (rottamazione) o più semplicemente attraverso il riconoscimento di un’esigenza di discontinuità non più rimandabile, di uno sguardo lungo che sia intimamente ispirato da un’etica generazionale che ha cuore il proprio presente e futuro. Senza presunzioni di giovinezza né di ardore anagrafico. Ma ispirata dal coraggio e dalla passione di chi ha volontà e aspirazione ad intraprendere un percorso di responsabilità diretta. Nelle «giovani» candidature a sindaco della nostra Città, al di là delle strumentalizzazioni politiche e delle appartenenze ideologiche, intravedo in controluce una concreta possibilità: che un vasto gruppo «anagrafico» e di «collocazione» riconosca il proprio destino di generazione. E che questa naturale e bella propensione a vivere pienamente il proprio destino non sia mortificata dal consueto realismo di una classe dirigente politica e da un sistema di opinione che in realtà ha rivelato storicamente di saper vincere solo quando ha mostrato coraggio, visione, partecipazione e passione civile.

Vitandrea Marzano,

sociologo

 

fonte: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari 15 luglio 2013